pensi di conoscermi

IO SONO MATTEO

L’autismo ha tante facce: io sono Matteo.

“Io sono Matteo”, ma chi parla non è Matteo, è la sua mamma, perché Matteo non può parlare, non con le parole.

Matteo parla con gli occhi e i suoi sguardi raccontano cosa pensa delle persone che incontra, delle situazioni che vive, parlano delle sue emozioni.

Crescendo però è successo che sempre più di rado le persone che incontra si fermano a leggere i suoi occhi: di conseguenza, la distanza tra lui e il resto del mondo è aumentata e così anche la sua tendenza ad isolarsi.

Matteo oggi non ha una vita sociale autonoma: tutto ciò che fa, lo fa grazie all’impegno della famiglia e di quelle persone che ruotano intorno a lui e proprio grazie a lui hanno imparato a convivere con l’autismo.

Matteo è un giovane adulto estremamente sensibile, molto affettuoso. E’ una persona che si fa amare, ma lo devi conoscere, perché spesso ha reazioni improvvise e inaspettate, che possono disorientare e spaventare.

Ricordo che da piccolo tirava i capelli agli altri bimbi per poter comunicare con loro. Quante volte, come mamma, mi sono sentita giudicata come incapace di educare mio figlio per questi comportamenti apparentemente così inopportuni.

In effetti quando era piccolo, a un primo sguardo Matteo non aveva alcun segno della disabilità, la sua disabilità non era immediatamente riconoscibile.

Ora si percepisce di più anche dall’esterno, ma è sempre difficile essere considerati effettivamente disabili se non si ha una carrozzina.

Senza una carrozzina alla cassa di un supermercato nessuno aiuta o cede il posto ad un genitore con figlio affetto da autismo, anche se magari è evidente che c’è una situazione di palese difficoltà.

Mi è anche capitato diverse volte, posteggiando l’auto in un parcheggio per disabili, di essere accusata di approfittare ingiustamente di un privilegio non dovuto, in quanto la malattia di Matteo non è immediatamente riconoscibile.

Situazioni ordinarie e apparentemente banali che, per chi le vive, risultano traumatiche: aggiungono al dolore di avere un figlio ammalato una sofferenza quotidiana anche psicologica.

Diventano fatiche, nella fatica quotidiana.